Ode a chi lotta
- IN.Palestina
- 1 mag 2024
- Tempo di lettura: 6 min
Aggiornamento: 25 mar
Le mani che coltivano la terra

Oggi non è giorno di festa; lamentiamo su corpi impiccati, scaraventati sugli asfalti, brutalizzati nelle miniere d’oro e cobalto e poi annegati in questi dannati mari. Lamentiamo su corpi martoriati, violentati, bombardati, cullati solo dalle suppliche di chi sopravvive; corpi di testimoni che varcano le soglie di jannatul firdaus [1].
La nebbia cala fitta sulle strade della storia, strade aggrovigliate alle pendici di insediamenti coloniali che bramano sovranità, eretti da mani guerriere che bramano rivolta.
La nebbia cala fitta sulla storia, più fitta del solito, quando ad accogliere il nuovo mattino, si palesa quel farabutto genocidio di duecentotto ieri, e 76 anni a compiere, e quante infamie da condannare.
È il 1 maggio 1886, le classi lavoratrici indicono uno sciopero generale nella città di Chicago, terra indigena (non ceduta) del Consiglio dei Tre Fuochi [2]. La polizia spara e arresta. Cinque anarchici, Engel, Fischer, Lingg, Parsons e Spies, sono condannati a morte. In onore dei cinque martiri di Chicago, il Primo Maggio viene dichiarato giorno di Sciopero internazionale.
Le forze capitaliste in veste di stato intervengono repentinamente per svuotare questa ricorrenza di qualsiasi accezione sovversiva. Sappiamo bene che quando lo stato non può sopprimere un’idea, ne fa un’istituzione da celebrare in tempi e modi ben definiti.
Cosí, il 1 maggio 1950, in Italia si festeggia per la prima volta, con tutti i crismi della legalità, il “primo maggio”, ora dichiarato festività nazionale dalla Repubblica “fondata sul lavoro (non retribuito di donne e migranti)”.
Da ricorrenza ribelle, il primo maggio diviene una festa reazionaria del lavoro con tanto di cerimonie ufficiali di governanti, preti, sindacati, e politicanti. Viene da chiedersi se questi padroni si fanno beffa di noi.
È il 1938, Emma Goldman scrive: “mi è stato insegnato che la terra dovrebbe appartenere a coloro che la coltivano (...) non si può negare che le persone ebree in Palestina abbiano lavorato la terra. (...) Hanno recuperato terreni incolti e li hanno trasformati in campi fertili e giardini fioriti” [3].
Non c’è sventura più amara che ascoltare farneticare una persona intelligente.
Seppur economicamente marginalizzate dalle politiche di cosiddetta “conquista sionista del lavoro” [4], le classi lavoratrici palestinesi non solo furono integrate nella forza lavoro dell’entità sionista per sopperire alla mancanza di manodopera ebraica, ma divennero addirittura indispensabili per l’espansione del progetto coloniale sionista [5].
Pensate voi il paradosso: la logica d’eliminazione della popolazione nativa che cede il passo alle leggi dell’accumulazione originaria perpetua [6].
In tempi recenti, l'espressione più visibile di questo contrappasso si è avuta con lo sciopero generale del 18 maggio 2021. Nel pieno della lunga tradizione palestinese di adesione allo sciopero come strumento di lotta anticoloniale [7], le attività commerciali palestinesi rimasero chiuse in tutta la Palestina, dai quartieri orientali di Gerusalemme e le città della Cisgiordania, alle città a maggioranza palestinese di Haifa, Jaffa, Lydda e Akka nell’interiore [8].
Lo sciopero fu ampiamente osservato anche dalla classe operaia palestinese con cittadinanza israeliana e da quella con residenza a Gerusalemme [9], rappresentata in modo sproporzionato nei settori dell'edilizia, dei servizi igienici, degli alberghi e dei ristoranti, oltre che nelle file dei tassisti e degli autisti di autobus.
Diverse centinaia di persone furono licenziate per aver scioperato. Secondo l'Associazione israeliana dei costruttori, solo 150 operai edili palestinesi della Cisgiordania si presentarono al lavoro quel giorno, con perdite stimate di quasi 40 milioni di dollari [10].
O Emma, quanto ingenua sei stata a cercare giustificazioni per le manie coloniali di omuncoli intossicati di nazionalismo. In Palestina, le mani che coltivano la terra sono palestinesi (e tailandesi, alle volte) [11], mani costrette a costruire insediamenti (panottici) su sacre terre [12], mani che si levano in segno di vittoria dal sottosuolo del carcere sionista, che raccolgono olive e foraggiano erbe clandestine [13], che raccolgono pietre e impugnano armi e scrivono poesie, mani che scavano nude tra le macerie, che innalzano bambine belle come la luna, che seppelliscono martiri e poi accompagnano il viso al cielo mentre le labbra invocano Allah.
Cara Emma, la terra non dovrebbe appartenere a coloro che la coltivano, ma a coloro che le appartengono. Questo può essere un punto difficile da cogliere per chi brancola ancora nel buio della modernità [14].
Quest’umile ode non ci permette di addentrarci oltre, ma leggete ed ascoltate chi vi dice che la terra è viva, non è una proprietà da arredare a piacimento con foreste di pini non autoctoni, da spremere come una povera vacca da latte sino a prosciugarla [15]. Non si può derubare la terra delle sue risorse e di chi la custodisce senza incontrar resistenza, ribellione, lotta.
Oggi non è giorno di festa, è giorno di lotta e questa è un’ode a chi lotta, a chi lavora nelle vostre case e vi accudisce nell’invisibilità più meschina, a chi lavora nei
campi e poi scompare nel buio della notte, a chi s’imbarca oltremare alla ricerca di vita, a chi si ribella e pianta una tenda, a chi erige barricate ed espelle le guardie dei padroni.
Questa è un’ode a chi costruisce un parapendio per tornare a casa, a chi spazza via la polvere da una casa senza più tetto, senza più pareti, è un’ode a chi pettina i capelli delle bambine che danzano la dabke nelle scuole affollate dell’UNRWA [16], a chi si dà fuoco indossando gli abiti di lavoro, è un’ode a chi dal lavoro non ha mai fatto ritorno.
Gloria a chi lotta, gloria alla resistenza.
Note:
[1] Jannatul firdaus (tr. “giardini del paradiso”), il grado più alto e superiore del paradiso, riservato alle anime più nobili.
[2] Nelle geografie del colonialismo di insediamento, terra indigena “non ceduta” indica che la terra in questione è stata sottratta alle popolazioni indigene tramite conquista ed espulsione forzata, invece che tramite trattato o acquisto.
3] E Goldman, “On Zionism” (1938).
[4] La “conquista sionista del lavoro” fu una delle principali strategie coloniali implementate in Palestina dal movimento sionista, specialmente a partire dalla seconda migrazione coloniale (alyia) negli anni 20 e la fondazione dell’Histadrut.
[5] S Englert, “Hebrew Labor without Hebrew Workers” (2023), sebbene il movimento sionista laburista tentò in un primo momento di liberare la Yishuv (la comunità ebraica Palestinese che antecedeva l’invasione sionista) dalla dipendenza dal lavoro palestinese, dagli anni '60 l'industria delle costruzioni dello stato sionista iniziò a dipendere in larga misura dal lavoro palestinese.
[6] La “logica d’eliminazione” è un termine coniato dallo storico Patrick Wolfe per descrivere i vari metodi adottati dai regimi coloniali d’insediamento per estinguere le collettività indigene in un determinato territorio, o almeno per privarle della loro autonomia politica. I metodi variano notevolmente, si sovrappongono e interagiscono: pulizia etnica, incarcerazione,
assimilazione, esilio forzato. La frase “accumulazione originaria perpetua” sottintende una differente lettura del concetto tradizionalmente marxista dell'accumulazione originaria (o primitiva) come "una fase precedente o transitoria nello sviluppo del modo di produzione capitalistico", nonché come "un processo storicamente inevitabile che alla fine avrebbe portato progresso alle comunità che furono violentemente trascinate nel circuito capitalistico". Da una prospettiva anarchica e indigenista, il processo di accumulazione persiste nel presente sotto forma di esproprio statale. Per approfondire, G Coulthard, “Red Skin, White Masks” (2014).
[7] Il primo grande sciopero politico del movimento anticoloniale palestinese si osservò da aprile a giugno 1936 e segnò l’inizio della seconda rivolta Araba contro il mandato britannico. Per una prospettiva storica dello sciopero del 2021, intervista a Riya al Sanah, “Report on the general strike in Palestine“ (2021).
[8] Il termine “interiore”, tradotto dall’arabo الداخل (al-dakhil), è il modo in cui la diaspora palestinese si riferisce ai territori palestinesi colonizzati dalle milizie sioniste nel 1948 e oggi sigillate all’interno dei confini dello stato sionista.
[9] Il sistema di controllo della popolazione indigena palestinese messo a punto dal regime sionista a partire dal 1967 prevede quattro diverse categorie anagrafiche: persone palestinesi con cittadinanza israeliana, persone residenti a Gerusalemme senza cittadinanza (carta d’identità blu), persone residenti in Cisgiordania e Gaza con cittadinanza palestinese (carta d’identità rossa). Per saperne di più, Identity Crisis: The Israeli ID System (Animazione di Visualising Palestine).
[10] J Beinin, “Palestinian Workers Have a Long History of Resistance” (2021) [11] Al 7 ottobre 2023, nel settore agricolo, i lavoratori palestinesi rappresentano quasi un quarto della forza lavoro, mentre i lavoratori migranti provenienti principalmente dalla Tailandia costituiscono il 33%. Le politiche sioniste d’importazione di manodopera degli ultimi decenni sono una risposta alla prima intifada alla fine degli anni ottanta, la cui efficacia si deve in gran parte alla dipendenza dell’entità sionista da lavoratori palestinesi di Gaza nell'edilizia e nell'agricoltura.
[12] Il panottico è una struttura carceraria ideata nel 1791 da Jeremy Bentham che permette ad un unico sorvegliante di osservare tutti i soggetti detenuti all’interno di una istituzione carceraria. Per vedere come l’architettura degli insediamenti segua il modello del panottico, fare riferimento a E Weizman, “Hollow Land” (2007), tradotto in italiano con il titolo “Spaziocidio. Israele e l’architettura come strumento di controllo”.
[13] Nel 1977, il Ministero dell'Agricoltura israeliano ha dichiarato lo za'atar (timo) selvatico una pianta protetta, regolamentandone rigorosamente la raccolta. La criminalizzazione della raccolta dello za'atar continua a essere applicata in tutta la Palestina dall'Associazione israeliana per la natura e i parchi (INPA).
[14] Con riferimento alla teoria decoloniale del sociologo peruviano Anibal Quijano, parliamo di “modernità” come un quadro epistemologico indissolubilmente legato al progetto coloniale europeo.
[15] Diversamente dalla concezione moderna di “terra come proprietà”, in molte epistemologie indigene la terra rappresenta una relazione reciproca. Per approfondire, J Kehaulani Kauanui, “Paradoxes of Hawaiian Sovereignty”; M Gomez-Barris, “The Extractive Zone”.
[16] La dabke (transl. دبكة) è una danza folcloristica palestinese.