Non voglio più essere civile
- Mariam Masud
- 27 gen 2024
- Tempo di lettura: 9 min
Aggiornamento: 30 mar
Immaginate che qualcuno vi dica di non aver provato nulla l’11 settembre, non orrore, non paura, non dolore o compassione. Ha guardato le torri in fiamme da un balcone di New York con totale indifferenza. Cosa pensereste di questa persona?

Quando lessi questa scena in un romanzo per un corso di letteratura transatlantica rimasi sorpresa, ma non per le ragioni che si potrebbe pensare. Non provai repulsione per l’insensibilità del personaggio, né misi in dubbio la sua umanità. Piuttosto, provai apprensione per chi aveva scritto il brano. Cosa comporta scrivere una scena del genere? Non farà arrabbiare le persone? Durante l’incontro successivo, posi queste precise domande alla professoressa.
La professoressa mi sorrise prima di prendere parola; un sorriso che mi comunicava che quello era il mio posto, allontanando delicatamente la voce nella mia testa che mi dava dell’impostora. Credo sia grazie a quel sorriso che ricordo la risposta della professoressa a distanza di tre anni; quel sorriso, e la mia ossessione per prendere appunti.
“È sicuro che farà arrabbiare”, disse la professoressa con tono non rammaricato, ma impertinente, o addirittura entusiasta; simile al tono che usa mio fratello minore per rispondermi quando minaccio di spifferare che si è comportato male, come a dire: e chi se ne frega. “Cosa rivela il fatto che le persone si arrabbino per questo?”, chiese la professoressa, “e cosa significherebbe se la persona che scrive prendesse la decisione consapevole di omettere questa scena?".
A chi importa?
Importava a me, durante i primi cinque mesi della specializzazione. Mi importava così tanto della possibile rabbia del mio pubblico che tradii la mia. Ho vissuto in Palestina per sei anni prima di tornare a studiare negli Stati Uniti. Per sei anni ho conosciuto solo volti arabi, la lingua araba, la cultura e la lotta decoloniale palestinese. Non dovevo pensarci due volte prima di entrare in una stanza e dire Assalamu Alaikum. Non lasciavo un negozio o un’aula senza dire Yateek Ilafya. Non dovevo pensare di aver tradito la mia lingua con una spiegazione inadeguata di come questo significhi sì “Dio ti benedica”, ma anche molto di più. Non battevo ciglio quando la persona seduta accanto a me nel taxi a sette posti supplicava Allah di “torturarli” mentre ci apprestavamo ad afferrare le nostre carte d’identità verdi e consegnarle frettolosamente al soldato israeliano che si affacciava impaziente al finestrino.
Eppure, in quei primi mesi nelle classi americane, ero costantemente sovrappensiero, in stato di allerta ed in contraddizione con me stessa. Ero troppo concentrata sulle strutture che mi dicevano che io non appartenevo a quel mondo, che il mio posto lì era garantito solo a condizione che mi comportassi da brava “altra”. Ben presto però capii che potevo esistere all’interno di quelle strutture egemoniche occidentali mentre mi operavo per distruggerle e creare scompiglio.
La verità è che a prescindere dal motivo per cui il personaggio del romanzo non reagì dinanzi alle torri in fiamme, io comprendevo l’atto della non-reazione di per sé. Comprendevo l’impassibilità dinanzi al dolore egemonico. Vedete, l’uomo che sedeva al mio fianco nel taxi a sette posti seppelí suo figlio di dodici anni perché un soldato israeliano gli sparò in testa a distanza zero; suo fratello maggiore sta scontando il suo diciassettesimo anno in una prigione israeliana; il piccolo appezzamento di terra che aveva ereditato dal padre, glielo rubarono i coloni; poi, proprio la settimana scorsa, stava radunando le sue pecore quando i coloni hanno sguinzagliato i cani, aizzandoli mentre sbranavano il suo gregge. Si può dire a quest’uomo che non si arrabbi? Gli si può dire di essere civile di fronte a un soldato israeliano?
I fondamenti dell’educazione non funzionano per quest’uomo né per altre persone come noi. Quei fondamenti non sono stati creati per i dannati della terra. L’educazione è il modo in cui l’oppressore vigila il nostro comportamento; ci rende docili e in catene, in strutture che non sono certo state costruite per noi. Lo abbiamo visto durante le proteste per l’omicidio di George Floyd nell’estate del 2020, quando la stampa e la politica condannarono le reazioni violente della popolazione nera. Persone attive nei movimenti di protesta si riversarono sui social esigendo: Non dite alle persone nere come reagire.
Lo abbiamo visto durante i pesanti bombardamenti israeliani su Gaza, la più grande prigione a cielo aperto del mondo, nel maggio 2021, e in ogni campagna di bombardamenti aerei dal 2008. Occidentali liberali e aderenti al sionismo hanno criticato i gruppi della resistenza palestinese per il lancio di razzi su Israele. Il popolo palestinese ha esortato: Non dite a un popolo colonizzato come reagire.
Lo vediamo oggi, mentre la colonia di insediamento israeliana scatena una guerra genocida contro Gaza. Con il rumore di bombe e le grida d’angoscia in sottofondo, con i detriti e la polvere che offuscano il cielo, il popolo palestinese di Gaza registra video per renderci testimoni di questa orribile ingiustizia. “Non smettete di postare! Mostrate al mondo! Diffondete le nostre voci! Guardate!”
Basta guardare.
Onoriamo le loro richieste con imbarazzo e gli occhi lucidi. Pubblichiamo testimonianze oculari, interviste, foto e video, mentre i profili su Instagram vengono banditi e quelli su TikTok vengono disattivati. Le immagini di cadaveri palestinesi insanguinati e i video di squadre di soccorso che estraggono corpi maciullati da sotto le macerie non aggradano il pubblico: appaiono troppo violenti. Alcune persone di noi vengono invitate a parlare in televisione, ma ci rifiutiamo di condannare Hamas. Quando sottolineiamo il nostro diritto alla resistenza, o se il nostro tono tradisce rabbia, i segmenti vengono censurati: condonano la violenza. Il nostro linguaggio è sotto sorveglianza: Sionismo, supremazia bianca e colonialismo non sono termini accettabili; incitano l’antisemitismo e sono quindi violenti. Celebrità e influencer con ampia visibilità che decidono di parlare si assicurano innanzitutto di condannare tutta la violenza e di concludere con una preghiera per la pace. Nel frattempo, il nostro bilancio di morte aumenta. Non dite a un popolo morente come reagire.
In Palestina e in altre lotte di resistenza, si biasima la violenza come un attributo innato delle soggettività subalterne che si contrappone alla fantomatica pacatezza dello status quo. La nostra incapacità di reagire pacificamente all’oppressione diventa la prova del nostro sviluppo fallace. Abbiamo deluso i loro cortesi tentativi di civilizzarci.
Ma questo fallimento è il nostro successo, un rifiuto di arrenderci alle modalità di conoscenza occidentali che ci declassano nel termine subordinato di ogni binario: Moderno/arretrato, colto/selvaggio, pacifico/violento, civile/incivile.
Vorrei aver accettato prima l’inciviltà come forma di resistenza. Nel secondo semestre di specializzazione, leggemmo libri provenienti dal Messico, la Russia, lo Zimbabwe, gli Stati Uniti e il Pakistan; mettevano in questione l’integrità ideologica del sistema globale. Durante una discussione in classe su ciò che costituisce una nazione, parlai della Palestina e di come l’idea di nazione fosse stata fondamentale per la decolonizzazione della terra e del popolo. In risposta al mio commento, un compagno di studi, chiamiamolo John, affermò con sicurezza che la nazione era solo un concetto astratto, creato come risultato di confini arbitrari tracciati per separare spazi e persone. John insisteva sul fatto che se le persone avessero superato il concetto di nazione e avessero semplicemente dialogato tra loro, le loro affinità riscoperte avrebbero sicuramente permesso il superamento del “conflitto”.
Non sentii nessuno degli altri commenti. Rimasi seduta in silenzio, ammutolita, cercando di controllare la mia rabbia. Per una trentina di minuti, sorvegliai me stessa in silenzio, ripetendomi che si trattava di un dibattito civile. Quando ne fui in grado, iniziai a parlare, la mia professoressa mi rivolse un altro dei suoi sorrisi incoraggianti e annuì in quello che avrei giurato essere un respiro sollievo.
Il mio viso si arrossò per l’emozione mentre mi sforzavo di parlare tra i balbettii, l’agitazione e il sudore. Confortata dallo sguardo caldo della professoressa, incontrai gli occhi di John.
La mia bocca disse: “i popoli colonizzati sostengono il nazionalismo perché è la loro unica speranza di una vita libera dal colonialismo.”
Il mio cuore disse: “banalizzi con tanta disinvoltura il trauma e la sofferenza collettiva di un intero popolo. Sei un uomo bianco, un privilegiato, vivi negli Stati Uniti e i soldi delle tue tasse finanziano le armi usate per massacrare il popolo palestinese e occupare i territori palestinesi. Per voi la nazione è astratta perché non dovete affrontare l’eliminazione costante. La vostra idea di nazione è quella in cui vi ha indottrinato questo Paese neocoloniale fin dalle elementari: patriottismo cieco, libertà come merce da esportazione militare e la dichiarazione che tutti gli uomini sono uguali, a meno che non lo siano. Questa nazione ha fallito. Ma non dite ai popoli colonizzati che la nazione è astratta, non quando stanno ancora lottando per l’autodeterminazione. Sono astratte le nostre anime martiri?”
La nazione è la nostra salvaguardia.
La mia bocca continuava a parlare: “non si tratta delle nostre affinità in quanto persone. Si tratta dello squilibrio di potere sociale, economico e politico tra entità colonizzatrici e popoli colonizzati. Non possiamo lodare banali affinità e ignorare le disuguaglianze.”
Il mio cuore diceva: “dovremmo forse legare parlando di serie TV? Condividendo hummus e falafel? Il cibo e la cultura pop libereranno la Palestina?”
Questo mi ricorda di una frase esasperante scritta sul muro dell’apartheid a Betlemme: fate l’hummus non la guerra. Immagino che sia stata scritta dalla mano di un turista straniero che si trovava lì per scattare qualche foto davanti al muro e poi metterci una didascalia che parla di entrambe le parti, di pace e amore; un vago umanismo mascherato da solidarietà. Israele sa che anche il sangue dell’infanzia di Gaza è rosso? Il colonialismo e l’umanismo si escludono a vicenda. La natura stessa del primo esclude il secondo. Per progetto e nelle nostre realtà quotidiane, non siamo uguali. La preparazione dell’hummus può cambiare ben poco.
Ci sono voluti quattro anni non solo per articolare ciò che il mio cuore mi disse quel giorno, ma anche per cambiare il mio intero approccio alla scrittura sulla Palestina. Nei miei commenti iniziali, mi ero imposta un linguaggio e un tono che fossero concisi e pacati. Ora non mi controllo più. Lascio spazio alla rabbia, al sarcasmo e alla condiscendenza, non solo nel mio cuore ma anche nelle mie parole. Questa autenticità potrebbe isolare e offendere alcune persone.
Ma ricordate: a chi importa?
Non mi farò carico del compito di rendere la nostra sottomissione appetibile a chi è in grado di alleviarla, come dice Toni Morrison. Il fatto che le nostre parole dipendano dai sentimenti di chi ci legge del Nord globale è una testimonianza delle vestigia coloniali presenti non solo nel nostro pensiero, ma nel nostro stesso essere. Se essere sgradevoli è un atto di violenza, così sia. Che i nostri libri siano violenti, le nostre storie, i nostri discorsi, i nostri interventi durante le discussioni di classe. Lasciate che le vostre parole isolino alcune persone, che costringano altre a mettere in questione le gerarchie che le privilegiano, che l’espressione delle nostre convinzioni in contesti accademici e professionali appaia violenta.
E sì, la violenza è anche la pistola, il razzo, la pietra. La lotta anticoloniale è violenta. Dopo tutto, chi può far girare il mondo sul suo asse in modo pacifico?
Immaginate che qualcuno vi racconti di quando è evaso dalla prigione di Gaza e ha resistito ai suoi oppressori. Raccontano con entusiasmo di come hanno gridato “Allahu Akbar!” quando hanno visto i razzi sferzare da Gaza verso le terre da cui la sua famiglia era stata espulsa nel 1948. Immaginate che una madre vi racconti che quando teneva in braccio il corpo morto del figlio più piccolo, mentre accanto a lei giacevano i corpi del marito e degli altri tre figli, gridò: “Ya Allah distruggili!”. Io grido “Allahu Akbar” con loro. Dico “Ameen” a ogni loro supplica. Il loro dolore mi consuma. Mi commuove al di là di ogni descrizione.
Ripenso al personaggio che non ha reagito all’11 settembre. Io e lui non siamo uguali: lui è un uomo bianco. Lui non era consumato da un tipo di dolore e impassibile dinanzi a un altro. Ma, analogamente alla descrizione che di se stesso, anch’io ero “a prova di evento” dinanzi alle uccisioni del 7 ottobre. Non ho provato orrore, paura, dolore o compassione. Non mi sono commossa. Non mi sono sentita insensibile, né ho messo in discussione la mia umanità. Sono sicura che per alcuni questa ammissione è raccapricciante. Ma ricordo a me stessa: a chi importa? Se mi importasse, mi deconcentrerei dalla Palestina; sminuirei il mio dolore; banalizzerei la mia rabbia; ammetterei la mia colpa, seppur in maniera implicita; mi preoccuperei di essere civile. E io non voglio più essere civile. Chiedo invece: chi è degno di una reazione da parte del Nord globale?
Mi chiedo come abbia reagito John alla fuga della popolazione palestinese dalla prigione di Gaza il 7 ottobre. Cosa pensa della risposta di Israele? Ha letto i nomi delle centinaia di famiglie che da allora sono state cancellate dal registro civile? Ha visto le mani bambine scavare nude tra le macerie alla ricerca delle loro madri? Ha visto il padre che portava i resti dei suoi figli in buste di plastica? Vuole che condanniamo la violenza? Pensa ancora che la nazione sia astratta, arbitraria e obsoleta?