Lo Spettro dello Stato Palestinese
- Ghassan Kanafani
- 5 apr 2024
- Tempo di lettura: 14 min
Aggiornamento: 9 apr
Il presente brano è stato tradotto in italiano a partire dalla traduzione inglese di Hazem Jamjoum, pubblicata da Fikra Magazine il 5 aprile 2024. La versione originale in arabo è stata pubblicata da al-Hadaf (pp.6-7) il 6 marzo 1971.

Si possono distinguere tre tipi di “Stato palestinese”:
Il Tipo I è uno “Stato” composto dalla Cisgiordania e la Striscia di Gaza, istigato, supervisionato e dominato da Israele. Sarebbe, a tutti gli effetti, parte della resa completa a una vittoria militare israeliana, e uno dei tanti frutti di tale vittoria. Lo scopo di questo Stato sarebbe quello di sviluppare la superiorità militare, politica ed economica del vincitore, e di innescare un progresso importante verso i suoi obiettivi strategici.
Il Tipo II è uno “Stato” composto dalla Cisgiordania, la Striscia di Gaza e la Cisgiordania orientale (ovvero la Giordania, sulla sponda est del fiume Giordano). Questo stato verrebbe istituito attraverso il rovesciamento del regime esistente ad Amman, con il pretesto che tale colpo di stato soddisfa i desideri popolari della popolazione palestinese-giordana. Il colpo di Stato potrebbe avvenire solo con la benedizione e l’incoraggiamento di Israele, Stati Uniti e Gran Bretagna. Il suo scopo effettivo sarebbe quello di estinguere una volta per tutte il movimento rivoluzionario di liberazione palestinese, portandolo interamente sotto il controllo, forse attraverso una burocrazia militare, della coalizione imperialista israeliana.
Il Tipo III è uno “Stato” imposto dalla volontà della lotta armata palestinese e araba, su terre liberate in Cisgiordania o altrove. Questo scenario è di fatto impossibile da realizzare nel prossimo futuro, a meno che non si verifichi un cambiamento drastico nell’equilibrio del potere militare e politico sia in relazione al nemico israeliano che al nemico imperialista reazionario. L’autorità che si svilupperà nelle terre liberate non dovrà necessariamente assumere la forma di uno “Stato” nel senso solitamente associato a questo termine. La base fondamentale della sua esistenza sarebbe la realizzazione di un punto di partenza e di lancio per ulteriori azioni liberatorie con la forza delle armi, la continuità della lotta e il rovesciamento dell’attuale squilibrio di potere. Lo scopo di tale Stato sarebbe quello di intensificare la rivoluzione, di portarla a uno stadio più avanzato.
Lo “Stato” e Terra Liberata
Quest’ultimo tipo di “Stato palestinese” non è evidentemente quello che sentiamo proporre e discutere. Non è nemmeno prevedibile, data l’attuale “fase di ripiegamento” della lotta palestinese e araba. Ciononostante, è fondamentale registrarlo qui, perché la logica di un tale Stato è in totale opposizione alla logica dei “due Stati” di Tipo I e Tipo II. Eppure, molte persone oggi usano intenzionalmente e a torto la logica del Tipo III per parlare e analizzare i Tipi I e II.
Lo “Stato palestinese” descritto nel Tipo III farebbe progredire il movimento di liberazione palestinese e arabo e sarebbe favorevole alla lotta armata. Mentre lo “Stato palestinese” dei Tipi I e II sarebbe la conseguenza di una grande ritirata del movimento di liberazione palestinese e arabo. Sconvolgerebbe l’equilibrio di potere a favore del nemico e verso i suoi interessi, costringendolo infine ad arrendersi alla sua volontà.
Inquadrare la statualità dei Tipi I o II come una sorta di “riscatto” della terra palestinese è uno stratagemma ingannevole, che di solito si esprime con la domanda senza arte nè parte: “Non sarebbe meglio lanciare la rivoluzione da Tulkarem o al-Khalil piuttosto che da Jarash o Amman?” La domanda prende le condizioni e gli sviluppi alla base del Tipo III, ossia la continuazione della lotta, per giustificare le condizioni e gli sviluppi radicalmente diversi, anzi opposti, alla base dei Tipi I e II, ossia la resa.
Chi vuole uno “Stato palestinese”
Prima di affrontare la questione delle “mappe” relative allo “Stato” proposto, dobbiamo fare un passo indietro e osservare quanto segue:
Mai nella storia della nostra lotta si è parlato di uno Stato palestinese e di quanto sia “a portata di mano” come ora. Queste chiacchiere sono estremamente degne di nota perché mai, nella storia della nostra lotta, le difficoltà e gli ostacoli lungo il percorso verso questo “Stato” sono stati così evidenti ed esigenti.
Dall’occupazione del giugno 1967, Israele ha completamente fallito nel creare una propria “leadership nazionale” palestinese, o qualsiasi tipo di autorità politica autoctona nei territori occupati di recente. La classe di “Quisling” che collabora con il nemico israeliano in Cisgiordania e a Gaza è la peggiore di tutto lo spettro storico delle occupazioni militari, e la più fallimentare per quanto riguarda la rappresentanza politica. Israele non è assolutamente in grado di fingere che i suoi partner palestinesi possano svolgere un ruolo rappresentativo. Nel migliore dei casi, è a malapena in grado di offrire un leader municipale o provinciale da far sfilare come rappresentante palestinese; nessuno “Stato palestinese” che [il nemico israeliano] crei in Cisgiordania e a Gaza potrà offrire una realtà diversa da quella che esiste ora sotto la sua occupazione militare. Un’autorità creata in questo contesto fallirebbe in maniera eclatante nel servire gli obiettivi israeliani e imperialisti di uno “Stato palestinese”, poiché ciò richiederebbe senza dubbio che tale Stato abbia una parvenza di “autonomia” e una qualche pretesa di essere un organismo rappresentativo.
Israele non ha alcun interesse pratico in uno Stato palestinese che non favorisca i suoi obiettivi di infiltrazione e dominio delle realtà politiche arabe. Uno Stato palestinese che non possa rivendicare un livello minimo di accettazione da parte degli Stati arabi, o almeno di alcuni di essi (in particolare la Giordania), non può servire alla vittoria israeliana. È chiaro che uno Stato di questo tipo sarebbe contrario agli interessi del regime giordano. Infatti, quest’ultimo ha usato tutti i mezzi a sua disposizione, dalla repressione alla diplomazia, per opporsi a qualsiasi autorità di questo tipo che operi (in Cisgiordania) al di fuori dell’egemonia e del controllo di Amman. Un tale “Stato” sarebbe dannoso per gli interessi e i privilegi della Giordania ed esporrebbe il regime giordano all'irrilevanza o alla decadenza.
Per ragioni simili, gli altri regimi arabi non riescono a trovare una ragione o una motivazione per accettare questa forma di Stato palestinese.
Tutte le fazioni del movimento di resistenza, legittimo rappresentante della volontà collettiva del popolo palestinese, rifiutano questa trappola della resa. Non c’è dubbio che l’esistenza stessa del nostro movimento di liberazione nazionale dipenda dalla capacità di queste fazioni di rifiutare e combattere la possibilità di uno Stato di questo tipo e di proseguire nella lotta armata per cancellare lo status quo dell’attuale equilibrio di potere.
Le grandi potenze globali non vedono nulla di interessante nel lavorare seriamente per uno Stato così debole e ossequioso, rifiutato da quasi tutte le parti in lotta. Ciò non significa che queste potenze non riconoscano come urgente il “problema del popolo palestinese” o che non siano consapevoli della crescente importanza e priorità di questo “problema”, ma significa piuttosto che vedono questa esigenza attraverso una lente diversa, sulla quale tornerò più avanti.
Date le lotte interne per il potere, Israele è di per sé contrario a rinunciare a questa forma minima di occupazione diretta. Inoltre, non è obbligato a farlo, né dall’equilibrio di potere locale o globale, né da quella che viene chiamata “opinione pubblica internazionale”. Ciò che è chiaro, al momento, è che il Piano Allon rimane la strategia più popolare all’interno dell’establishment governativo israeliano. Il piano mira a poco più che disarmare il popolo palestinese in Cisgiordania, costruire un baluardo di insediamenti militari lungo il fiume Giordano e “restituire” ciò che resta della Cisgiordania ad Amman attraverso un accordo di pace e riconciliazione!
La Fondazione di Falesteenistan?
Allora, cos'è che appassiona tanto questi discorsi su uno "Stato palestinese" come se fosse imminente, eccolo da un momento all'altro, nonostante la chiara evidenza che gli impedimenti alla realizzazione di un tale Stato non sono ora inferiori a prima? Il quadro oggettivo con cui si può esaminare la questione dell'istituzione del Falasteenistan (che è il nome più logico per uno Stato palestinese artificiale e collaborazionista, cosí come coniato dal dottor Nabil Shaath in una conferenza che ha tenuto di recente in Kuwait) è il seguente:
L'istituzione del Falasteenistan come risultato di una resa più ampia e totale (o di quella che oggi viene definita "soluzione politica negoziata"). In questo scenario, Falasteenistan fa parte di un accordo più completo che emerge dalla totale sottomissione politica araba, il prezzo ancora da pagare per la sconfitta del 5 giugno 1967.
Oppure
L'istituzione del Falasteenistan come obiettivo di un improvviso cambiamento nella struttura del regime giordano, attraverso un golpe militare o di palazzo, o qualcosa del genere. In questo scenario, il nuovo regime di Amman pretenderebbe di rappresentare in qualche modo il popolo palestinese-giordano. Forse allora, dopo una piccola conversazione con il nemico, la Giordania dichiarerebbe una nuova patria palestinese-giordana, o qualcosa del genere.
Esaminiamo più da vicino ciascuna di queste due possibilità:
La prima possibilità, il Falasteenistan come parte di una più ampia resa politica araba, deve essere compresa nel contesto del più ampio percorso dell'idea di "soluzione pacifica negoziata". Sebbene sia vero che negli ultimi mesi sono stati fatti grandi passi avanti in questo percorso, sarebbe fuorviante sottovalutare gli ostacoli molto reali disseminati lungo il cammino, ostacoli che rendono impossibile, in questo momento storico, una tale statualità attraverso il negoziato. Per questo motivo, è del tutto fantasioso parlare di uno Stato palestinese "a portata di mano" in un futuro prossimo.
La seconda possibilità, cioè lo Stato fantoccio che nasce da un cambio di regime ad Amman, non potrà mai realizzarsi finché l’impulso fondamentale continueranno ad essere Israele e le potenze imperiali, a meno che queste ultime non garantiscano la continuità del ruolo intellettuale, politico e militare assegnato alla classe dirigente giordana, dalla creazione dell'entità giordana fino ad oggi.
In altre parole, lo scenario di sostituire l’elemento reazionario al potere in Giordania, che non sarebbe mai stato in grado di affondare le sue radici reazionarie così in profondità nella società giordana senza il sostegno delle potenze imperiali, non può essere realizzato a meno che queste stesse potenze imperiali e Israele non garantiscano una nuova classe dirigente. Questa classe dovrebbe presentare un volto pubblico credibilmente patriottico, pur basandosi sulle stesse radici sociali, di classe, politiche e ideologiche che hanno radicato l’attuale classe dirigente giordana. Queste sono le condizioni necessarie che permetterebbero a qualsiasi regime in Giordania di svolgere un ruolo che servi con successo gli interessi delle potenze imperiali, e il regime esistente si è dimostrato esemplare nel soddisfare questi requisiti e nell'adempiere al ruolo assegnato di venerabile collaboratore imperiale.
Nel settembre 1970, il regime giordano ha dimostrato (cosí come continua a dimostrare) la forza e indispensabilità che esso rappresenta per i suoi padroni imperiali. L’idea che l'imperialismo rinuncerà a uno dei regimi arabi reazionari più notoriamente solidi e sanguinari non può essere altro che un'illusione, soprattutto perché questo regime ha dimostrato la sua efficacia come affidabile servitore degli interessi imperiali fin dal 1936 (attraverso il 1941, il 1948, il 1956, il 1958, il suo ruolo nell'interrompere l'unione politica tra Egitto e Siria, e più recentemente nel 1967). I signori imperiali non lo trascureranno né dimenticheranno.
Uno "Stato palestinese" in questa forma e in questo contesto non è qualcosa di prevedibile. Anche se ai padroni della Giordania potrebbe non dispiacere rilasciare una dichiarazione di sostegno affinché il popolo palestinese decida del proprio destino, questi padroni non esiteranno a usare tutti i mezzi a loro disposizione, in particolare approfondendo le relazioni con la classe dei collaboratori dei Quisling in Cisgiordania, per garantire che tali dichiarazioni di solidarietà non siano altro che astratti moralismi.
Per quanto riguarda il Falasteenistan e la classe dirigente giordana, la mappa politica non lascia spazio a dubbi: il regime di Re Hussein non può più affermare di rappresentare la volontà del popolo palestinese (ed è così che ha perso la battaglia con i palestinesi da cui è apparentemente uscito "vincitore"). Detto questo, Re Hussein ha dimostrato alle parti più potenti dell'attuale equazione di potere che il suo è il regime su cui si deve e si può fare affidamento. Questa fiducia non può dare frutti se non attraverso un'escalation della repressione violenta delle masse palestinesi e la falsa costruzione della loro volontà.
Anche se l'attuale monarchia, o il suo sostituto nell'apparente colpo di Stato, dovesse fare un accordo separato con Israele per stabilire la "Patria palestinese-giordana" sotto qualsiasi nome, gli israeliani e i loro sostenitori imperiali non la vedranno come una soluzione. La loro preoccupazione principale non è se neutralizzare o continuare a trattare con il regime giordano, quella è già una parte consolidata dello status quo esistente. Il loro obiettivo è eliminare la lotta palestinese. Un Falasteenistan giordano non lo garantirà se non nel contesto di un accordo globale con tutti gli Stati arabi, o almeno con la maggior parte di essi, e in particolare con i più potenti.
E questo ci riporta, ancora una volta, al viaggio della "soluzione pacifica negoziata".
Il viaggio dello Stato palestinese
Dopo aver contestualizzato la questione di uno "Stato palestinese", possiamo ora rispondere in modo oggettivo alla domanda sul perché esso venga ora caratterizzato con tanta passione come imminente.
È importante notare che le discussioni su uno "Stato palestinese", nella sua attuale iterazione, non sono iniziate con l'accettazione araba dell'ultima iniziativa statunitense, ma hanno assunto la forma attuale sulla scia del bagno di sangue del settembre 1970. In realtà, il discorso di uno "Stato palestinese" circola da tempo, anche se sempre avvolto nell'ambiguità. Prima della guerra del 1967, Lawrence Langner aveva presentato un'iniziativa per dichiarare la Grande Gerusalemme unificata come Stato con l'obiettivo di una "coesistenza spirituale ed economica". Anche Aziz Shehadeh chiese uno Stato in un numero del 1969 della rivista sionista New Middle East e la stessa rivista pubblicò un numero speciale sull'argomento nel marzo 1970. Ci furono anche voci consistenti di un progetto di stato presentato da alcuni notabili palestinesi a U Thant dopo la sconfitta del giugno 1967 e modificato dopo una riunione dei notabili nella casa di Gerusalemme di Anwar Nusseibeh nel maggio 1970. Il 22 gennaio 1970 il Jewish Chronicle riportò per la prima volta la notizia di una corrente all'interno del partito di governo israeliano, il MAPAM, che prendeva in considerazione la creazione di un'entità palestinese. Il 14 maggio 1970, Aba Eban parlò di uno Stato palestinese in una trasmissione radiofonica araba. Poi c'era stato Fulbright, e dopo Goldman che aveva proposto la formula di "un territorio non israeliano per i palestinesi", con notizie di un certo dottor Fishers dei Quaccheri che esaminava la possibilità di un Falasteenistan su entrambe le sponde del fiume Giordano.
Sebbene queste proposte possano essere considerate istanze di richiesta di uno Stato palestinese, sono tutte caratterizzate da una mancanza di chiarezza e specificità, in particolare quelle di Fulbright e Goldman, che hanno inserito la nozione di Stato palestinese nell'idea di una "soluzione pacificamente negoziata" per la regione nel suo complesso. L'attenzione per uno "Stato palestinese" come "soluzione" che in qualche modo si regge da sola ha assunto una forma chiara solo dopo gli eventi del settembre 1970. Solo allora abbiamo assistito alla frenesia della stampa francese e statunitense, e più recentemente di quella britannica, che ha fatto proseliti a favore dello Stato palestinese al di là di qualsiasi cosa si sarebbe potuto immaginare in precedenza. Oggi è raro che un lettore apra un giornale occidentale senza vedere uno o due articoli che annunciano la "nascita" di un Falasteenistan da un momento all'altro.
Ma perché?
La principale forza della resistenza palestinese non è, almeno in questa fase, la sua forza militare o l'estensione del territorio geografico sotto il suo controllo. Se questa realtà era evidente a livello politico, è diventata più certa dopo gli eventi del settembre 1970: il fascismo reazionario del regime giordano, che non risparmiava nulla nel suo arsenale di repressione contro la resistenza, si è convinto più che mai che il potere della resistenza non è mai nel numero di fucili nelle sue armerie o nel numero di uffici in superficie da cui svolge le sue attività.
Nonostante la carneficina militare inflitta dal regime giordano sulla resistenza da settembre in poi, le dimensioni reali della resistenza non sono state neanche minimamente intaccate quanto le sue capacità militari. Di conseguenza, la vittoria dell’ “operazione di settembre”, istigata da Israele e dalle potenze imperiali e attuata dal suo collaboratore reazionario, rimane incompleta. Tale vittoria richiede un'operazione successiva volta non a paralizzare la potenza militare della resistenza, ma a minare il terreno sociale e politico sotto i suoi piedi, ponendo di fatto fine al movimento che rappresenta la volontà di lotta delle masse palestinesi.
Questo non può essere fatto in modo semplice. Richiederebbe una strategia meticolosamente pianificata in grado di dividere le lealtà delle masse palestinesi, minando non solo i pilastri sociali su cui si basa la resistenza per raggiungere gli obiettivi di emancipazione, ma anche quelli che costituiscono la base su cui la resistenza giustifica la sua stessa esistenza. Il "progetto di Stato palestinese" è proprio la bomba piazzata per minare le fondamenta sociali della resistenza. Questo progetto necessita di una cauta progettazione per estinguere la fedeltà popolare al movimento di resistenza. Se le forze avversarie riusciranno a garantire l'eliminazione della posizione del movimento di resistenza come rappresentante della volontà palestinese, diventerà abbastanza facile imporre qualsiasi forma di resa alle masse palestinesi.
Non è una coincidenza che la campagna per uno Stato palestinese sia diventata più clamorosa sulla scia del bagno di sangue di settembre. Un effetto importante dei massacri di settembre è stato un senso psicologico di desolazione di massa che può essere sfruttato appieno per presentare e abbellire l'idea di uno "Stato palestinese" come una sorta di salvezza. L'importanza di quest'idea non ha nulla a che vedere con la sua realisticità o realizzabilità, ma con il fatto che viene presentata alle masse sopraffatte come un’ “alternativa” in un momento in cui il movimento di resistenza, per le sue stesse ragioni soggettive e oggettive, non è in grado di offrire alcuna alternativa diretta e a breve termine.
Proporre lo "Stato palestinese" in questo momento e in questo modo mira a isolare seriamente la resistenza e a indebolire la sua base popolare di massa. Questo è il modo per imporre la resa al popolo palestinese, perché tale resa non può essere imposta finché il movimento di resistenza è in grado di mantenere la sua posizione di unico rappresentante della volontà popolare.
Ecco perché l'idea dello "Stato palestinese" è stata spinta prematuramente come qualcosa che è a portata di mano, qualcosa sul punto di esplodere come realtà. L'obiettivo effettivo di questa spinta è quello di confondere e disturbare la lealtà popolare palestinese alla resistenza, di frammentare questa lealtà e quindi di sottrarla.
La contraddizione diventa evidente se si confronta la propaganda esagerata per lo "Stato palestinese" come qualcosa che sta per essere attuato con l'impossibilità pratica e oggettiva di realizzarlo nelle condizioni attuali. Si tratta di una trappola messa in atto per due scopi:
Primo: sviscerare la fedeltà popolare alla resistenza, attualmente al minimo, diffondendo dubbi sull'efficacia della resistenza nel lungo periodo. La trappola della statualità tenta quindi di riempire il vuoto lasciato dal disincanto nei confronti della resistenza, facendo balenare all'orizzonte la statualità come la salvezza promessa e mascherata da possibilità.
Secondo: adescare la resistenza per farle intraprendere prematuramente una battaglia decisiva, portando all'eliminazione della sua esistenza fisica e militare prima che sia effettivamente in grado di combattere la vera battaglia contro la "soluzione pacificamente negoziata" in senso lato.
Preparazione al Confronto?
L'analisi svolta finora non deve essere intesa nel senso che uno Stato palestinese collaborativo, il Falasteenistan, sia in realtà "nel regno dell'impossibile" o che si debba risparmiare qualsiasi sforzo per prepararsi e lavorare per affrontare e garantire il suo fallimento.
No.
Ciò che dobbiamo notare è invece la grande differenza tra il pianificare ed eseguire una confrontazione con un pericolo inevitabile dietro l'angolo e il prepararsi (con i nervi calmi e i cuori infuocati) ad affrontare questo pericolo che è una probabilità concreta più in là nel tempo.
Sarebbe un errore di valutazione considerare questa minaccia come imminente nel breve periodo. Ci trascinerebbe in una battaglia per la quale il nemico ha scelto il momento, il luogo e gli strumenti. Inoltre, permetterebbe al nemico di portare avanti il proprio programma senza doversi preoccupare di affrontare la minaccia della resistenza. È una certezza assoluta che il Falasteenistan farà parte, in un modo o nell'altro, del programma di "soluzione pacificamente negoziata" se e quando la resa politica sarà imposta ai regimi arabi. Per questo motivo, affrontare questo pericolo rimane legato all'attuale confronto generale tra il movimento di liberazione arabo e l'assalto imperialista.
Come progetto, il Falasteenistan può solo essere parte della più ampia battaglia attualmente condotta dal movimento di liberazione palestinese e arabo. Ciò significa che la capacità di garantire il fallimento di questo progetto nel prossimo periodo dipende dalla capacità di questo movimento di riorganizzarsi e rinvigorirsi e di rafforzare i suoi legami con i movimenti di massa in tutto il mondo arabo.
Sarebbe un grave errore cadere nella trappola tesa lungo il percorso del movimento di resistenza, unendosi, volontariamente o meno, al branco che esagera la vicinanza alla creazione del fantomatico Stato palestinese. Esagerare l'immanenza del Falasteenistan sarebbe pericoloso quanto ignorarlo completamente. Contribuirebbe alla campagna di propaganda del nemico che mira a dipingere la resistenza come non rappresentativa della volontà delle masse palestinesi, e attirerebbe la resistenza in una battaglia per la quale attualmente non è attrezzata; ignorarla ci impedirebbe di prepararsi all'inevitabile confronto.
Uno Stato palestinese deve essere esaminato meticolosamente. Ci sono correnti che hanno già iniziato a sostenere che la creazione del Falasteenistan è un male necessario. Su questa base, continua l'argomentazione, il movimento di resistenza dovrebbe "preservare" la sua forza di combattimento per la prossima fase della lotta. Queste correnti opportuniste che propagano valutazioni così errate della situazione devono essere affrontate con decisione, perché in ultima analisi servono la stessa base da cui è stato lanciato l'assalto allo "Stato palestinese".
La missione principale che la resistenza deve affrontare attualmente è quella di rafforzare la sua posizione di rappresentante della volontà delle masse palestinesi, smascherando la campagna per lo "Stato palestinese" ed esponendola come parte integrante del più ampio movimento per una "soluzione pacificamente negoziata". Questo può essere fatto solo:
Identificando e mobilitando i principi e gli obiettivi comuni di tutte le fazioni militanti rivoluzionarie per costruire e mantenere un fronte palestinese di liberazione nazionale;
Intensificando l'azione militare contro il nemico israeliano, anche se questo si traduce in una fase di "sregolatezza tattica";
Esercitare una pressione politica e militante contro le forze della reazione in Giordania;
Rafforzare, istituzionalizzare e approfondire i legami con le forze progressiste e patriottiche arabe.