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La teoria come pietra

  • Immagine del redattore: Stephen Sheehi
    Stephen Sheehi
  • 25 gen 2024
  • Tempo di lettura: 10 min

Aggiornamento: 30 mar




Edward Said lancia una pietra contro contro una torre di guardia delle forze di occupazione israeliane al confine libanese
Edward Said lancia una pietra contro contro una torre di guardia delle forze di occupazione israeliane al confine libanese nel 2000

In un'intervista telefonica rilasciata al New York Times da Vienna nel 2001, Johann August Schülein, allora presidente della Freud Society di Vienna, commentò cosí il disinvito di Edward Said: “Molti membri della nostra associazione ci hanno detto che non possono accettare l’invito di un palestinese impegnato che lancia anche pietre contro i soldati israeliani.”


Vent’anni dopo, la conosciamo bene quella storia: la Freud Society di Vienna annullò l’invito all’intellettuale palestinese Edward Said. Ciò che spinse l’associazione a disdire l’invito fu una fotografia che anche conosciamo bene: Edward Said, al confine libanese, che lancia una pietra contro una torre di guardia delle forze di occupazione israeliane (IOF). Jacqueline Rose, direttrice del Freud Museum di Londra, estese poi l’invito a Said, dando vita alla sua famosa conferenza (e poi libro) Freud e il non europeo.


Il disinvito di Said richiama la nostra attenzione sui limiti della libertà accademica nelle democrazie liberali e fornisce un’eminente genealogia delle vigorose e spudorate molestie contro docenti, studenti, persone attive nei movimenti politici e personaggi del mondo artistico, commesse non solo per mano di gruppi esterni che sostengono il genocidio israeliano, ma anche di presidenti di università nordamericane ed europee.


Il disinvito di Said dimostra ciò che dal 7 ottobre 2023 è divenuto estremamente chiaro nei campus universitari e negli istituti psicoanalitici: che l’umanesimo universale delle cosiddette democrazie liberali occidentali non ha spazio per l'umanità del mondo, per non parlare della mondanità provocatoria [tr. defiant worldliness] del popolo palestinese.


Said ci ha dato questo concetto di “mondanità”, di essere nel mondo e del mondo. Non si tratta della mondanità [tr. worlding] di Spivak, che traccia abilmente il modo in cui i popoli nativi sono inseriti nel mondo cartesiano-nazionalizzato dell’autore-amministratore-mappatore coloniale. La mondanità di Said eccede l’essere nel mondo di Heidegger e supera il lebenswelt [tr. ‘mondo della vita’]immaginato da Husserl. La mondanità [di Said] è l’essere del mondo, un mondo di relazionalità con l’altro in un mondo di disconoscimenti governati dalla colonialità, dalla bianchezza [tr. whiteness], dalla ciseteronormatività e dal capitalismo, una mondanità esclusa, negata o ripudiata dalle ontologie mediate dalla “etnoclasse occidentale dell’Uomo.


La mondnità di Said si accomuna con il tout-monde o “mondialité” di Edouard Glissant, è una mondanità di relazione con la terra, con le generazioni antenate e quelle anziane, con le proprie sorelle e i propri fratelli. Le persone di Gaza e l’intero popolo palestinese abitano all’interno di questa mondanità, combattono e vivono per essa, e purtroppo, è per essa che muoiono. Il concetto di mondanità esige da parte nostra non astrazione, ma simultenea poesia e concretezza: questa è una mondanità per la quale milioni di persone in strada stanno lottando a fianco del popolo palestinese. Edouard Glissant ci insegna a considerare come i testi poetici richiamino in superficie le realtà materiali e le esperienze in cui viviamo e ci immergiamo inseme a livello globale. Glissant ci invita a considerare la poesia in relazione a un mondo condiviso, co-creato e asimmetrico, un modno di sfruttamento, violenza e genocidio, come sta accadendo ora a Gaza, ma anche di creatività, bellezza e sfida.

Nelle università nordamericane ed europee ci viene insegnato a considerare la mondanità di persone, oggetti, immagini e testi. Ma si tratta di una mondanità insegnata in un “luogo senza dimensioni”, come direbbe Glissant, un luogo che priva le mondanità delle sue vere relazioni sociali. Oggi, all’ombra abbagliante del genocidio, vediamo che l’università ha spazio solo per l’astrazione (e la monetizzazione) della mondanità nera, marrone, queer, indigena e operaia, ma non ha spazio alcuno per le realtà materiali del loro essere. Non c’è posto per il popolo palestinese nella definizione disciplinare della mondanità accademica, soprattutto nei campus americani, canadesi ed europei.


Glissant è chiaro nell’insegnarci che la mondialité non è l’universalismo (o la globalizzazione), ma una mondialità determinata dalla nostra relazione con la conoscenza del mondo: conoscenza ed esperienza costituite attraverso l’esperienza comunitaria, non individuale (o potremmo dire filiale, unendo Said e Glissant). In questa relazione con il mondo, i soggetti coloniali, emarginati e razzializzati conoscono un mondo che è altrimenti impercettibile e illeggibile per (o addirittura negato da) coloro che detengono il potere e il privilegio, coloro che hanno trascinato cosí tanti soggetti verso il genocidio, nell’ “abisso”.


Per Said, testi, immagini e oggetti appartengono al loro momento e al loro luogo, ma la pienezza del loro significato latente viene alla luce solo in un momento politico successivo. Che ne è di Gaza in questa fotografia di Said? Del momento della pietra, della pietra in mano a un arabo? Edward Said che lancia una pietra? Edward Said, l’arabo e palestinese in esilio, la cui famiglia ha vissuto in esilio in Egitto, Libano e Stati Uniti, che lancia una pietra a Bab al-Fatima.


Edward Said lancia una pietra contro un confine creato grazie a un accordo segreto tra burocrati coloniali, forgiato nello stesso momento in cui gli arabi, a cui era stata promessa l’indipendenza, si schieravano con Francia e Gran Bretagna contro i loro ex fratelli ottomani: un confine ora corazzato dalla Fortezza Israele. Edward Said lancia una pietra, forse due. La figlia Najla, drammaturga, e il figlio Wadie, oggi eminente studioso di diritto, sono fuori dall'inquadratura. Il piede e il profilo laterale del militante marxista e intellettuale libanese Fawwaz Traboulsi appaiono ai margini del primo piano della foto.


Raccogliendo una pietra, una pietra dalla terra (al-ard), Said affermò di essere di quella terra, non più “fuori luogo”, ma del luogo. La pietra, per suo canto, proclamò che Said era nativo di quella terra. Nell’afferrare quella pietra, Said afferrò quella terra che, in cambio, sorresse Said. L'immagine ci mostra che Said e la pietra sono indistinguibili e che quest’ultima è indistinguibile dalla mondanità della teoria di Said. La pietra dimostrò che Said era un palestinese: Edward Said, pietra alla mano, professò, con grande orrore degli austriaci, degli israeliani e dei loro complici imperialisti liberali, che lui apparteneva a quella terra, apparteneva alla sua teoria.


Said aveva violato qualcosa, ma questo qualcosa non era pertinente all’aver lanciato una pietra contro un ebreo, cosa che non accadde, o al lanciare una pietra contro un soldato israeliano che si difendeva valorosamente dalle orde arabe, cosa che non accadde. Che Said avesse lanciato una pietra contro una torre di guardia israeliana vuota su un confine così saturo di violenza non era pertinente. 


Piuttosto, ciò che era pertinente è che Said raccolse un sasso, un sasso dalla terra su cui vengono coltivati i campi e i frutteti palestinesi e libanesi e costruite le case; raccolti, frutteti e case che vengono sradicati, demoliti o rubati e occupati dai coloni israeliani, i quali sostengono, in un supremo atto di distorsione della realtà coloniale, di essere loro i proprietari nativi e non il popolo palestinese.


Said raccolse una pietra, una pietra che potrebbe collegarci alla Roccia su cui è costruita la Cupola di Gerusalemme, raccolse una pietra nel villaggio libanese di Kafr Killa, a pochi chilometri da villaggi palestinesi spopolati, come il villaggio di Hunin, i cui resti esistono sotto l’attuale insediamento di moshav Margoliot, mentre la popolazione sciita di Hunin è stata terrorizzata da omicidi, violenze sessuali e accordi non rispettati e costretta a cercare rifugio oltre il confine coloniale in villaggi fraterni, come Kafr Killa, nel 1948, senza poter mai fare ritorno alle proprie case ancestrali. Con questa relazione radicata tra tempo e luogo, le rocce della terra scagliate da Said ci guidano verso una visione: “l’attenzione palestinese alla ricchissima sedimentazione della storia dei villaggi e delle tradizioni orali cambia potenzialmente lo status degli oggetti”, indirizzandoci così, come ci insegna Said, “verso i resti di una vita nativa presente e le pratiche palestinesi vive di un’ecologia umana sostenibile.”


Questa ecologia umana non è una metafora geologica vuota e astratta. Tiffany Lethabo King ci incoraggia a considerare la configurazione geologica della secca come un piano analitico in cui si dispegano le striature a spirale intrecciate della geografia, della geologia, del sociale e della storia. Se la critica del colonialismo articolata da Said potesse essere assorbita dall’università liberale e dagli istituti psicoanalitici, la sfida incarnata da Said [con il lancio della pietra] richiamerebbe la nostra attenzione sulla geologia e sulla geografia, ovvero sull’approdo materiale, della teoria Saidiana. Il lancio della poetra ci inviterebbe onoltre a soffermarci sulle pratiche sociali e intellettuali, cosí come sui modi di essere normativi, che fungono da matrici nella definizione delle persone nere e i popoli indigeni, ma che rimangono alcontempo sconvolti dalla presenza di queste soggettività. King cita la studiosa seneca Mishuana Goeman per riflettere sulle “concezioni indigene della terra come connessa [piuttosto che] come parcelle disaggregate su varie scale di accumulazione concepite dall'Europa”. La fotografia di Said costrinse i suoi ammiratori liberali a testimoniare in modo scomodo che lui, cosí come il testo e il critico, era “avviluppato nelle circostanze, nel tempo, nel luogo e nella società. In breve, sia la fotografia come testo che Said come critico “sono nel mondo, e quindi mondani.”


Said violò ciò che il mondo accademico occidentale pensava che fosse già stato concordato, ovvero una lettura errata della mondanità dell’intellettuale palestinese impegnato. Ricordiamo le parole di Schülein: “Molti membri della nostra società ci hanno detto che non possono accettare l’invito di un palestinese impegnato che lancia anche.” Il termine engaged (engagé) [tradotto in italiano con ‘impegnato’] non è innocente, soprattutto in un’Europa che conosce bene la divulgazione del termine da parte di Jean-Paul Sartre nel primo volume di Les Temps modernes. Tuttavia, nel contesto della Palestina, le figure intellettuali impegnate, cosí come la letteratura impegnata (al-adab al-iltizam), hanno una tradizione che va oltre l’opera di Ghassan Kanafani. Ciò che viene detto a Said è chiaro: rimani nell’astrazione di Sartre e prendi le distanze dalla pratica di Kanafani. Sii un esule intellettuale impegnato, ma mai un nativo militante impegnato.


Qui è utile la Psicopatologia della vita quotidiana di Freud. Questo testo ci chiede di considerare il ritiro dell’invito della Società Viennese come strutturale, ordinario e proveniente dalla “posizione privilegiata” del Consiglio direttivo, che ha considerato la decisione così “leggera” e “poco costruttiva” da non meritare il tipo di attenzione internazionale che ha raccolto. Una lettura sintomatica della cancellazione dell’invito ci allontana da spiegazioni manifeste. La scissione, piuttosto, appare chiara: Vienna voleva Said intellettuale senza la mondanità del suo intelletto; volevano un Said razionale, munito di testi ma privo del loro bagaglio affettivo.


Volevano l’esule palestinese, un palestinese senza patria, un palestinese senza Palestina. Ma la roccia ha infranto il loro disconoscimento (Verleugnung): la roccia lega il palestinese alla Palestina, non come metonimia, ma come radicamento reale e materiale alla terra. Come la poesia di Glissant, la fotografia è il ritorno alle sue origini nella mondanità del luogo, dello spazio e della materialità.


L’ammonimento articolato da Said in The Text, the World, and the Critic nei confronti di teorici che ignorano il mondo materiale e l’etica di una “coscienza critica” emerge oggi con maggior forza: questo è il tempo del genocidio del popolo palestinese, così prontamente disconosciuto da accademici e politici liberali. I critici che leggono testi (e teorie) al di fuori del loro mondo “perdono il contatto con la resistenza e l’eterogeneità” del testo, “predeterminando allegramente ciò che discutono, convertendo con noncuranza ogni cosa in una prova dell’efficacia del metodo, ignorando con noncuranza le circostanze da cui ogni teoria, sistema e metodo derivano in ultima analisi.” Tale disconoscimento è una forma di collusione.


Sia Said che Glissant, come lo stesso Freud, non erano guidati dal cliché ma dalla tensione binaria funzionale tra teoria e azione, tra psiche e sociale, tra spazio terapeutico e strada o tra il pensiero e le sue dimensioni materiali. Glissant ci avverte che: “pensare il pensiero equivale di solito a ritirarsi in un luogo senza dimensioni dove a persistere è la sola idea del pensiero.” Ma per il poeta-intellettuale impegnato, o per il poeta-intellettuale colonizzato, “il pensiero piazza sè stesso nel mondo; informa l’immaginario dei popoli, le loro varie poetiche, trasformandole: in essi il pensiero rischia di realizzarsi.”


Said diventa quello che l'intellettuale martire Basil al-A'raj avrebbe chiamato muthaqqaf mushtabak, un intellettuale impegnato, un intellettuale militante. Said con la roccia realizza Said con la teoria. Said diviene luogo ma anche momento collettivo di liberazione. In questa immagine e in quel momento, Said esiste in diversi punti del tempo e dello spazio, legando l'Intifada degli anni '80 con l'Intifada di al-Aqsa che prendeva piede proprio nel momento in cui Said lanciava la pietra.


Svolgendo ulteriormente questa fotografia, riconducendo il lavoro onirico di questa immagine alla materialità del suo momento, ricordiamo che la visita di Said al confine ebbe luogo poco dopo la liberazione del Libano meridionale, avvenuta solo pochi mesi prima per mano della resistenza libanese, dopo ventidue anni di occupazione israeliana illegale che provocò decine di migliaia di morti tra libanesi e palestinesi, per non parlare della detenzione illegale e della tortura di migliaia di uomini e donne da parte degli israeliani e dei loro mandatari libanesi.


La pietra è la teoria nel mondo. La pietra di Said era sia un omaggio alla resistenza libanese che una promessa al popolo palestinese: la resistenza avrebbe avuto successo.


Ma ora la pienezza della pietra emerge nella mondanità di un'immagine che conferma Edward Said, sì, come un mujahid, un combattente. La pietra lo collega ai “figli della pietra” della prima Intifada e alla resistenza di Gaza che combatte e vive tra le pietre delle case demolite. Se Gaza è sepolta dal genocidio israeliano che colpisce vite innocenti, ogni giorno da sempre più macerie, da sempre più pietre, l’immagine di Said è “una parte del mondo sociale, della vita umana e, naturalmente, dei momenti storici in cui [i testi] sono collocati e interpretati.”


Questo testo “mondano” è in comunità con altri testi, altre vite, altre relazioni poetiche, per riprendere Glissant, relazioni poetiche di resistenza e “potere psichico-politico” che esplodono dai “luoghi di morte” del colonialismo di insediamento, come ci insegna Nadera Shalhoub-Kevorkian, per generare e ri-generare continuamente una “incarnazione psicosociale collettiva della esistenza quotidiana.” L'immagine e l'evento agiscono in comunione con le pietre di Gaza, così come con le pietre di generazioni di palestinesi che resistono.


Così come Said ha raccolto una pietra come parte della sua grammatica affiliativa della resistenza ereditata dai palestinesi della prima Intifada, la resistenza di Gaza e della Cisgiordania ora combatte per la liberazione con Said come un loro punto fermo filiativo. Pensando a questa poetica delle relazioni filiali e di affiliazione che legano il popolo palestinese attraverso il tempo, relazioni poetiche che sfidano il tempo del colonialismo di isediamento, l'immagine di Said e della sua pietra e la resistenza degli abitanti di Gaza si ricongregano nella poesia del celebre poeta siriano Nizar Qabbani, scritta a Beirut durante la prima Intifada.


يرمي حجرا
يبدأ وجه فلسطين
يتشكل مثل قصيدة شعر..

يرمي الحجر الثاني
تطفو عكا فوق الماء قصيدة شعر..

يرمي الحجر الثالث
تطلع رام الله بنفسجة من ليل القهر..’

يرمي الحجر العاشر
حتى يظهر وجه الله
ويظهر نور الفجر
..

يرمي حجر الثورة
حتى يسقط آخر فاشستي
من فاشست العصر..
يرمي يرمي يرمي


Lancia una pietra

Affiora il volto della Palestina 

Ha la forma di una poesia.


Lancia la seconda pietra

Acri galleggia sull’acqua, un poema di poesia.


Lancia la terza pietra

Ramallah si tinge di viola nella notte dell'oppressione.


Lancia la decima pietra

Finché non appare il volto di Dio

Appare la luce dell'alba.


Lancia una pietra della rivoluzione

Finché non cadrà l'ultimo fascista

Che ha fatto di quest’epoca, un tempo fascista

Lancia

Lancia

Lancia

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